La gente umile, che viveva quotidianamente una vita di miseria e stenti, cercava anche il modo per svagarsi e dimenticare per un giorno i problemi approfittando delle festività comandate.
Il Carnevale, cioè il martedì grasso, era nel nostro paese una di queste occasioni.
I bambini si travestivano con vecchi abiti femminili presi in prestito dalle loro mamme o sorelle, si tingevano il volto con carbone e gesso (o indossavano maschere di cartone) si mettevano in testa un fazzoletto legato sotto il mento e giravano per le strade con uno spiedo in mano.
Venivano chiamati “carnevaletti”.
Bussavano a tutte i portoni e, senza parlare, con lo spiedo indicavano le pertiche da dove pendevano i prosciutti, le salsicce, la pancetta…Le padrone di casa davano loro volentieri qualche pezzetto di quella carne che, la sera, i ragazzini avrebbero mangiato con la famiglia.
Questa usanza ricorda in qualche modo la festa anglosassone di Hallowen, dove i bimbi mascherati girano per le case chiedendo dolci e caramelle. Il fatto che i nostri bambini chiedessero carne e non dolci si può senz’altro spiegare con il fatto che era il giorno di Carnevale e l’indomani sarebbe iniziata la Quaresima, periodo di digiuno e astinenza dalle carni ma, forse è indicativo anche delle condizioni socio-economiche del paese e della miseria che regnava negli strati più bassi della popolazione.
Se i bambini travestiti giravano il paese, gli adulti (in particolare le donne) facevano il funerale a Carnevale, piangendone la morte.
Veniva preparato un fantoccio che, vestito di tutto punto, era steso su un letto come morto.
Intorno, una schiera di donne, come le antiche prefiche, piangevano disperate strappandosi i capelli e asciugandosi finte lacrime con enormi fazzoletti. In genere, venivano intonati lamenti a mo’di filastrocche; una di queste diceva:
Carneval mij carnal |
Carnevale mio carissimo |
si sapeve che muriv |
se avessi saputo che saresti morto |
t’accirev ‘na vallina |
avrei ammazzato per te (per prepararti un buon pranzo) una gallina |
janca, rossa e cinnerina | bianca, rossa e cinerina |
Il povero Carnevale, alla fine della veglia funebre, veniva bruciato con un grande falò.
Un’altra storiella che si raccontava ai bambini era che, nella notte tra Carnevale e Quaresima, i due, uno rubicondo e grasso, l’altra brutta e scheletrica, litigavano furiosamente lanciandosi i cibi a loro consoni: Carnevale tirava prosciutti, salsicce, polpette e così via…mentre Quaresima rispondeva con fichi secchi, aringhe salate, broccoli. Ebbene, la lite era vinta alla fine dall’ossuta Quaresima, che, sconfitto Carnevale, restava signora e padrona del tempo fino al giorno di Pasqua.
La Quaresima, come evidenzia il nome, segna i quaranta giorni che passano dalla fine del Carnevale (martedì grasso) alla Pasqua dì Risurrezione.
Quaranta è un numero ricorrente nella Bibbia e la Quaresima è, per i cristiani, un periodo di preghiera e digiuno che ricorda quello di Gesù nel deserto, tempo di conversione del cuore e preparazione al triduo pasquale della passione, morte e Resurrezione del Signore.
In Quaresima, negli anni passati, soprattutto prima del Concilio Vaticano II, era imperativo categorico mangiare di magro. Oltre alla carne, si doveva rinunciare al lardo, allo strutto, ai grassi animali. Restavano perciò pane , polenta, ortaggi, legumi …. In Quaresima era ammesso il pesce, fresco o salato, seccato, affumicato e marinato. Vero "companatico” della povera gente, era l’umilissima aringa o saraca; arida e secca ma molto economica.
Il popolo impersonava la Quaresima con una vecchia donna magrissima e vestita di nero e, nel nostro paese, era usanza rappresentarla nei cortili, appesa ad una corda.
Un vecchio ombrello costituiva la gonna di “Quarajesima asciuvuluta”( Quaresima desiderosa di cibo) mentre il corpo e la testa venivano fatti con stracci arrotolati. Ai lembi della gonna si appendevano gli alimenti consumati in quel periodo: sarache, fichi secchi, carrube.
C’era anche una filastrocca che recitava “Quarajesima secca secca, s’ha mangiat i fich secch”
e altro ancora.