È Festa: menù, struscio e giglio

CAPITOLO VI
LE CUORIOSITÀ DELLA FESTA DI SETTEMBRE

1) Il menù della festa
Tra i cibi tradizionali non possiamo non ricordare “’o papero oppure pepero ‘mbuttuneto”, consistente in una grossa oca, allevata in cortile, farcita, oltre che con le interiora, con uva passa, uova, carne macinata, zucchero e pinoli (vedi ricetta). Ogni brava massaia casalese, dopo averla circondata con patate tagliate in grossi pezzi, la riponeva nel forno a legna, che si trovava in un angolo del cortile, accanto al pozzo e al lavatoio, i “comodi” delle antiche casa contadine.

Tra i dolci più popolari ricordiamo gli “struffoli” confezionati con farina e uova, impastati e successivamente fritti in padella poi mescolati con il miele, nonché i famosi “taralli” bianchi, scintillanti per la “glassa”, il “naspro”, come lo chiamava il popolo, che ne faceva forni interi, da regalare ai vicini di casa e anche a persone di un certo riguardo, verso le quali si avevano obblighi di riconoscenza. Gigino Furia (nel suo libro "Casal di Principe, edito da Pironti) fa risalire l’usanza di cuocere e mangiare “il papero” alle tradizioni gastronomiche della Linguadoca, una zona della Francia meridionale, durante l’assegnazione del feudo di Casale alla famiglia  Estendardo. Non possiamo dire con sicurezza se questa usanza sia nata in quel determinato periodo, tuttavia possiamo asserire con certezza che erano ben poche le famiglie che, a causa della miseria, riuscivano a fare a meno dell’oca imbottita. Fatto sta che, da molti anni, questa consuetudine è completamente scomparsa senza lasciare traccia ed è completamente sconosciuta alle nuove generazioni. In Francia, invece, l’industria del “foie gras”, il fegato d’oca, appare fiorente e redditizio, oltre a rappresentare un’attrazione turistica vera e propria. È questa un’ ulteriore dimostrazione del fatto che non abbiamo saputo valorizzare i nostri prodotti e le nostre tradizioni e che, solo l’intrinseca bontà e qualità del “made in Italy” lo ha fatto, in tempi piuttosto recenti, conoscere e apprezzare anche all’estero.
Questo per quanto riguarda il giorno 8 Settembre, in cui, come abbiamo ricordato, si poteva consumare carne, anche se capitava di Venerdì,negli altri giorni della festa, immagino che il popolo consumasse qualche “braciola di cotica” o qualche pezzetto di carne fresca, in particolare il guanciale e la gola (la cosiddetta “scannatura”) che erano le parti meno pregiate del maiale e, dunque, avevano un prezzo più accessibile. In tempi più felici aggiungevano una fettina di formaggio o di mozzarella, prodotti dai “casari” dei Mazzoni, ma che, almeno nei tempi più antichi, raggiungevano solo i signori di Aversa e Napoli.
Era proprio nei giorni di festa che si notava in modo particolare la differenza con l’alimentazione di tutti i giorni, quando il cibo era spesso a base di carne di bovino non macellati ma morti per malattie, che avrebbero essere distrutte o di formaggio e di baccalà adulterati. Purtroppo la miseria non permette di andare tanto per il sottile e, anche per questi motivi, nonché per le precarie condizioni igienico-sanitarie, scoppiavano spesso epidemie come il colera, che decimavano la popolazione.
Il vino, invece, specie in occasione delle feste, era il re della tavola.
Sappiamo da diverse fonti che i Casalesi antichi non offrivano il caffè ma un buon bicchiere di vino asprino, a quelli che si recavano in visita presso le loro abitazioni. Al caffè, invece, che si trovava solo nelle poche case che se lo potevano permettere, venivano attribuite capacità di rianimazione e, poiché veniva considerato corroborante, tonico e febbrifugo, si usava solo in caso di malattia o convalescenza.
Il vino asprino, però, era proprio una specialità della nostra zona. La vite maritata al pioppo, che formava filari snelli ed altissimi, tanto da aver bisogno di strumenti particolari per effettuare la vendemmia, è stata ed è ancora oggetto di ammirazione in tutto il mondo. È di pochi giorni fa la notizia del riconoscimento, per il Comune di Casal di Principe, del possesso dei 150 alberi di vite di asprinio più antichi della Campania, cosa che dimostra pienamente l’eccellenza dei Casalesi come agricoltori e produttori di questo vino.
Tornando alle pietanze della festa, voglio ricordare che ciascuna famiglia possedeva e conservava con cura le sue ricette, tramandate dagli avi, come avveniva anche in casa mia, dove la famiglia di mia madre, i Caterino, amava particolarmente il sapore dolce, tanto da confezionare, per il ragù, le polpette dolci con pinoli e uva passa, come a Carnevale, mentre i Corvino, la famiglia di mio padre, optavano decisamente per il salato. Questo costringeva mia madre, donna di rara dolcezza e pazienza, a preparare piatti dell’uno e dell’altro tipo, ma credo che a proposito del “papero ‘mbuttunato” fossero proprio tutti d’accordo.

2)  Lo Struscio
Nell’atmosfera appena descritta si svolgeva “lo struscio”, la passeggiata per il paese sotto le luminarie accese, che andava di regola, da “ncopp ‘o braccio” a “sott ‘a Villa”.
Vi partecipavano esponenti di tutte le classi sociali vestiti nel migliore dei modi, anche perché era dal vestito che un tempo si distingueva la classe sociale di appartenenza. Specialmente le ragazze sfoggiavano vestiti molto colorati ed attraenti, acquistati dalle famiglie a costo di rinunce e sacrifici. Ogni altra spesa veniva accantonata per quest’ occasione, e si rinunciava ad ogni altro abbigliamento festivo e, dunque ad altre feste, pur di essere all’ultima moda per la festa di Settembre.
In verità si festeggiava anche il Martedì dopo Pasqua quando la “Zingarella”, si recava alla sua dimora in campagna, da cui tornava per il mese di Maggio, ma i festeggiamenti di Aprile non erano così importanti come quelli di Settembre.
Detto questo, ritorniamo allo “struscio”, sottolineando che esso aveva delle motivazioni precise, che possiamo scoprire o riscoprire, leggendo queste pagine.
Intanto, durante la passeggiata ci si poteva dedicare al “gossip” più sfrenato, cioè al pettegolezzo a livelli esagerati, su fatti e personaggi che, in una piccola comunità, acquistavano un rilievo particolare. Ma c’era un’altra funzione, di gran lunga più importante, che lo “struscio” svolgeva egregiamente, una funzione potremmo dire “sociale”, poiché favoriva la conoscenza tra ragazzi e ragazze e la formazione di nuove famiglie. Nascevano lì i primi sguardi, i primi sorrisi e… nient’altro, perché i genitori erano un tempo molto severi e non permettevano, neppure alle figlie fidanzate, di incontrarsi ed uscire da sole con i loro innamorati.
Era durante lo “struscio” a cui partecipava tutta la famiglia, compresa la madre sciancata o il padre con il bastone, che i giovani si vedevano e si piacevano e poi, se i genitori di lui erano d’accordo, si recavano o mandavano qualcuno in casa della ragazza per chiederla in sposa. In questo modo si poteva anche risparmiare la spesa del “sensale” ‘u sanzen, che era un vero e proprio mestiere, svolto da colui o colei che combinava i matrimoni.
Il matrimonio combinato era, nei tempi passati, una regola, non un’eccezione e pochi figli riuscivano a ribellarsi alla volontà dei genitori. Comunque, in occasione della passeggiata, ci si poteva anche fermare in Piazza Mercato, che un tempo veniva chiamata Piazza Tribuna, accanto alla chiesa del SS. Salvatore, dove venivano proiettati dei film, cosa che doveva essere molto costosa. Infatti, si era appena agli albori del cinema e, a Casale, poco si conosceva di questa nuova forma di spettacolo, a parte i film “Luce” a cura del regime, che inneggiavano alla Patria, al lavoro e alle famiglie numerose, dove si poteva ammirare il “Duce” a torso nudo, accanto ad una trebbia o in mezzo ai contadini intenti a falciare il grano.

3) Il Giglio
“Il giglio”,in verità, non faceva parte della tradizione né del folclore casalese, ma era originario della città di Nola, dove se ne costruivano numerosi per la festa del protettore San Paolino e c’era perfino una festa specifica, denominata proprio “Festa dei Gigli”.
A Casale veniva portato  solo  nelle grandi occasioni e diventava la principale attrazione della festa. Scipione Letizia, Santagata e Furia, lo definiscono concordemente “un gingillo mastodontico”, perché arrivava quasi all’altezza del campanile, costruito con spranghe massicce di legno, che si assottigliava man mano che si alzava verso il cielo. Mentre sulla parte posteriore venivano attaccate migliaia di bandiere di carta, che, coprivano il legno, nella parte anteriore e sui lati c’erano stucchi raffiguranti angeli e santi, tra cui San Michele Arcangelo con la spada sguainata, in grandezza naturale. Accanto a loro non mancava la parte “profana”, cioè il pasto per i suonatori del concertino e neppure quello per i cantanti.
Era tanto grande e pesante che occorreva una squadra (“Paranza”) di sessanta robusti scaricatori del porto di Napoli che, dietro lauto compenso, si occupavano di trasportarlo e farlo camminare a passo di danza, per la via principale del paese. Dopo aver dondolato ben bene, veniva portato a Piazza Barone, il centro del paese, e assicurato con robuste funi per non farlo cadere. Vi rimaneva per tre giorni, tra l’ammirazione del popolo, che dal basso lo contemplava con il naso per aria ed il divertimento straordinario dei bambini, che facevano a gara per arrampicarsi su di esso. Il Giglio, però, era così alto che difficilmente qualcuno di loro riusciva a raggiungere la cima.

Il giglio in piazza Mercato in una foto del 1958