CAPITOLO V
LA FESTA DELLA PREZIOSA
1) I preparativi
Senza temere di essere smentiti, possiamo affermare che la Festa Patronale era l’appuntamento più importante dell’anno. Poiché non esistevano, nei tempi passati, luoghi di svago o centri di socializzazione, era questa, oltre che un modo di esprimere la devozione alla Madonna, l’unica forma di evasione da una vita grama, fatta di lavoro e di stenti. Per questo motivo, pur nella miseria, con enormi sacrifici, si metteva da parte qualche soldino da poter spendere in questa occasione. Ogni altra spesa veniva rimandata, specie quelle riguardanti l’abbigliamento, che veniva rinnovato solo quando giungeva questa ricorrenza. Soprattutto le ragazze, in particolare quelle da marito, le “vergini in capillis” (le ragazze con i capelli lunghi), come venivano definite le giovani in attesa di matrimonio nello Stato d’anime della Parrocchia del S.S. Salvatore in Casal di Principe del 1758, che aspettavano questa circostanza per permettersi capi di abbigliamento più colorati e magari un tantino più disinvolti rispetto a quelli che indossavano tutti i giorni. Leggendo tutte queste notizie, mi sono chiesta il perché di questa definizione “in capillis”, e in assenza di altre spiegazioni, sono giunta alla conclusione che, probabilmente, le giovani in attesa di fidanzarsi portassero la lunga chioma sciolta sulle spalle, mentre le “bizzoche”, che non aspiravano al matrimonio e le donne maritate portavano i capelli legati in una crocchia, il famoso “tuppo” che faceva impazzire le “capère”, (le pettinatrici del tempo).
Quelli che non avevano l’oca nel proprio pollaio se la procuravano per preparare il “papero” o il “pèpero ‘mbuttunato”, cioè la tradizionale oca imbottita, immancabile su tutte le tavole in quel particolare giorno di festa.
Nel corso dell’anno si mangiava poco e male; la base dell’alimentazione consisteva in pane duro di farina di grano o di granturco e “sarachiello” una specie di acciuga salata, che si poteva acquistare a buon prezzo.
Si lavorava, invece, tanto e anche bene, per più di dodici ore al giorno, per preparare un buon raccolto, la sola cosa che avrebbe permesso di fare una bella festa. Non a caso quasi tutte le feste patronali nei paesi si facevano a Settembre, il mese della raccolta per antonomasia. In mancanza di denaro liquido, i Casalesi non esitavano un istante a sacrificare anche oggetti d’oro e ricordi di famiglia, che venivano offerti insieme con animali e prodotti della natura come zucche, meloni e altri tipi di frutta. Insomma, si trattava di un appuntamento imperdibile, a cui ci si preparava scrupolosamente e verso il quale erano orientate tutte le energie e le risorse reperibili, in un contesto caratterizzato, spesso, dalla miseria e dalla sofferenza.
Questo però non deve destare alcuna meraviglia; infatti i Casalesi sono sempre stati dei grandi lavoratori e, spaccandosi la schiena, erano riusciti a sottrarre il terreno alla palude e a coltivarlo. Anche nei tempi passati i migliori muratori, carpentieri e artigiani più esperti, erano i Casalesi. Visto il disinteresse dello Stato, credevano solo nel frutto del loro lavoro e su di esso si basavano per realizzare i loro progetti. Pazienza se durante la festa si beveva qualche bicchiere in più o se scoppiava qualche rissa, il popolo ci passava sopra, era abituato a questi spettacoli e non ci faceva più caso; l’importante era festeggiare la propria Mamma Celeste, l’unica consolatrice e l’unica speranza di un popolo che, se pur provato, non ha mai abdicato dalla propria dignità.
Neppure in occasione del colera del 1908, che decimò la popolazione e finì all’inizio del mese di Agosto, si volle rinunciare alla festa di Settembre; il popolo, vestito a lutto, volle ringraziare la Vergine Preziosa per la cessazione dell’epidemia, deponendo nelle sue mani la sua vita e il suo destino. Dai testi consultati, non risulta che ci siano state interruzioni, nel corso dei secoli, della festa patronale; malgrado l’avvicendamento del potere politico, essa rimane un punto fisso nella storia del popolo casalese. Sicuramente i potenti e i politicanti di ogni tempo conoscevano bene il rischio che avrebbero corso mettendosi contro il popolo e suscitando una rivoluzione. Percorsero, invece, la via più facile: si studiarono di tenerlo buono, di favorire i sentimenti religiosi e di placarne, anche se solo temporaneamente, l’ansia di vita e di libertà. In poche parole applicarono il detto “festa, farina e forca”, teorizzato dai Borboni delle Due Sicilie, ma praticamente realizzato da tutti i potenti della Terra.