Nel 1915 la notizia dello scoppio della guerra arrivò a Casal di Principe come un fulmine a ciel sereno.
Il nostro era un piccolo paese di contadini e delle ragioni della guerra pochi capivano. “Bisogna liberare Trieste e Trento”, al massimo si diceva. Partirono in tanti: giovanissimi, giovani e padri di famiglia. Lasciarono nell’angoscia genitori, sorelle, mogli, figli…
Ignoravano, molti, che cosa significasse la guerra e poi contro un nemico più forte di noi, per uomini e mezzi.
Il battesimo del fuoco, nei primi giorni dell’intervento, lo ricevette il 15° reggimento di Fanteria. Di esso facevano parte un plotone di soldati e graduati tutti di Casal di Principe. Il plotone fu quasi decimato da morti e feriti. Lo stesso comandante cadde ferito gravemente e riportò un’invalidità permanente. Dopo pochi giorni giunse il triste annunzio a Casal di Principe, della morte dei soldati Oronos Antonio di Michele e di Cirillo Luigi di Francesc e di diversi altri militari. La notizia dei feriti giunse alle rispettive famiglie con ritardo
Tutti appresero così, coi fatti, che la guerra porta solo lutti e spargimento di sangue.
Con la chiamata in guerra di ben 20 classi, la campagna di Casal di Principe rimase deserta. Le donne supplirono gli uomini nella conduzione delle terre. A causa della guerra, i prezzi degli alimenti cominciarono a salire. Casal di Principe, paese eminentemente agricolo, si giovò di questo e le condizioni economiche un po’ migliorarono. Anche i salari ed il costo di lavoro aumentarono con vantaggio dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ma intanto a Casale continuavano a giungere notizie di morti e feriti in guerra. Si piangevano i morti in molte fami- glie. Giunse la notizia anche della morte del Sergente dei bersaglieri De Angelis Giuseppe di Saverio caduto nella battaglia della Bainsizza, un giovane di buona famiglia, molto stimato ed amato in paese.
Molti soldati, appena giungevano presso le loro famiglie in licenza, non ritornavano più al fronte, preferivano la diserzione. Non era viltà, ma quella guerra proprio non la capivano e stava diventando troppo lunga e massacrante. Scipione Letizia ,nostro concittadino, nel suo libro su Casal di Principe, così racconta la sua esperienza della I guerra Mondiale
“Alla fine del 1917, e precisamente nel novembre, l’esercito austriaco tentò un colpo di forza sul fronte del Friuli Venezia Giulia.Anch’io, essendo un imberbe 19enne mi trovavo già sotto le armi fin dall’ottobre 1916.Altri due miei fratelli maggiori, Andrea e Raffaele, già servivano la patria in guerra ed erano in zona di operazione fin dall’i- nizio dello scoppio della guerra contro l’Austria.
Ero stato trasferito, insieme al Comando del 134° Gruppo di assedio, in una località boscosa, sul monte Humm, di fronte a Tolmino. Poco distante dalle nostre posizioni sorgevano un gruppo di casolari, con un campanile che svettava alto ed una chiesetta in mezzo ad un bosco folto di castagni, in cui il sole non riusciva a penetrare per la densità. Le batterie erano postate su piazzuole e mimitizzate con foglie d’alberi. Noi dormivano e ci nascondevamo nelle caverne scavate dal genio. Si era al sicuro da ogni offesa del nemico. Si riposava avvolti nelle coperte e nei pa- strani. Solo le scarpe venivano slacciate e le fasce che avvolgevano come gambali le gambe. Le prime notti, in zona d’operazione, con un’oscurità profonda, con un silenzio assoluto, rotto solo da qualche crepitio di mitragliatrice, rimangono scolpite per sempre nell’animo. Si dorme nel dormiveglia, scosso dal lugubre stormire del vento fra i castagni. E’ l’ora in cui si pensa alla casa, la mamma, i propri cari, alle comodità lasciate, al lettino e ti ritrovi con gli occhi gonfi d’umidità, con la testa pesante in una caverna. E’ l’ora in cui tutto il patriottismo, l’amore di patria, il dovere svaniscono e si maledice la guerra, gli uomini che l’hanno scatenata, i sacrifici che bisognava affrontare tutti i giorni.
Dopo alcune nottate passate in questi luoghi, un mattino, svegliandomi, sentii, delle gentili voci di donne: Grappa, Grappin! Apersi gli occhi, e vidi delle donne altre, grassocce, graziose. Mi sembrava di sognare. Come era possibile che bellissime ragazze si avventurassero nelle nostre linee senza aver paura della guerra e dei soldati?
Cercai di toccarle, non credendo ai miei occhi: erano tre belle ragazze friulane, che abitavano in quel gruppetto di casolari col campanile alto, denominato Tribil di Sopra. Erano venute ad offrirci la Grappa Julia. Un bicchierino 20 centesimi. Tutti acquistammo e sorseggiammo con molto piacere i bicchierini. Ritornarono ogni mattina e si offrirono anche di lavarci la biancheria sporca, con poca remunerazione. Avevo sistemato la cassetta del pronto soccorso in un angolo. Ero stato nominato aiutante di sanità al comando del 134° Gruppo di assedio, essendo iscritto all’università di Napoli, alla facoltà di medicina e chirurgia. Il mio compito non era molto difficile: qualche
medicazione, una compressa di aspirina o chinino nei casi lievi e l’invio alla sezione di sanità in caso più difficile o grave.
In una brutta sera dell’ultima decade di novembre del ’17, iniziò l’offensiva austriaca di Caporetto. Dapprima fu un cannoneggiamento a tratti, poi si intensificò, divenne martellante, infernale, durante la notte. I proiettili di cannone di grosso calibro cadevano e scoppiavano dappertutto. Era un bombardamento a tappeto, come si dice nel gergo militare. Si aprivano buche nella strada, si schiantavano al suolo numerose piante di castagno, che accrescevano il frastuono. Il bombardamento non aveva sosta, era tambureggiante, senza tregua. Migliaia di bocche da fuoco vomitavano in tutta la zona sulle nostre linee, miriadi di proiettili di tutte le dimensioni con risultati ed effetti rac- capriccianti. E così questo inferno durò ore ed ore.
Notai che i nostri pezzi di artiglieria piazzati di fronte al nemico, tacevano. Perché questo silenzio?, perché non si contrabbatteva al fuoco nemico?, mi arrovellavo. Sarà per strategia? Per trarre in inganno il nemico? Certo che i nostri 12 mortai piazzati con tanta fatica, tacevano e non sparavano neppure un colpo. Per piazzare i predetti mortai avevamo una grande fatica. Ed ora che dovevano entrare in azione, tacevano. Fu un tradimento? La storia di Caporetto non ha ancora risolto tale mistero. Si parlò di dissenso, di disaccordo tra il generale di C.A. Capello ed il generale Cadorna. Sarà vero?
Certamente, se avessimo contrabbattuto, il nemico non avrebbe sfondato il fronte, tenuto tanto saldamente dai nostri soldati. Verso sera del giorno dopo, i nostri cominciarono a rispondere al fuoco nemico con bordate di tutte le batteria. Fu troppo tardi. Le nostre truppe di prima linea, demoralizzate, cedettero le posizioni e cominciarono a ritirarsi dopo aver lasciato migliaia di morti sul terreno ed interi reparti di prigionieri. Verso le ore 19, buio pesto, il bombardamento nemico cessò. Un alpino con il volto sanguinante, sfuggito forse al massacro ed alla cattura degli austriaci, che avanzavano, si rifugiò nel posto di pronto soccorso, per una medicazione al viso. Mi riferì con poche parole, quello che era successo. La battaglia era ancora in corso, ma le nostre truppe si ritiravano, molte erano state accerchiate e senza via di scampo. Preparai il mio zaino con tutto l’occorrente ed attesi l’ordine dei miei superiori. Dopo qualche ora i nostri pezzi tacquero definitivamente, e gli ufficiali ci ordinarono la ritirata. La triste odissea di Caporetto durò alcuni mesi. Il nostro reparto con tutto il comando si ritirò ordinatamente. Viaggiammo tutta la notte, illuminati a tratti da scoppi di granate, sparate dagli austriaci, per tagliarci la ritirata. Camminavamo carponi per terra mentre le pallottole ci fischiavano intorno, senza colpirci. Dopo aver viaggiato tutta la notte, raggiun- gemmo all’alba Primeriacco, un paesetto della provincia di Udine. In questa località ci accampammo circa 30.000 artiglieri e vi passammo la notte all’addiaccio.
Ebbi qui la fortuna di incontrare mio fratello Andrea, che faceva parte di un reparto di sussistenza con forni Weiss. E’ inutile descrivere la gioia di entrambi. Restammo abbracciati per molti minuti. Era all’oscuro della rotta di Ca- poretto. Rimase allibito. Mi fornì alcune pagnotte di pane, e subito dopo ci lasciammo perché dovevo seguire il mio reparto, mentre il suo rimase lì ancora per alcuni giorni. Incontrammo un reggimento di cavalleggeri, con le sciabole sguainate, che cercavano di fronteggiare il nemico e ritardarne l’avanzata. Seppi poi che l’eroico gruppo di cavalleggeri, di fronte al gran numero dei nemici, furono tutti trucidati.
Pian piano puntammo su Verona, che sembrava deserta di civili, ma affollata da soldati in ritirata. Proseguimmo la marcia con difficoltà coi crampi nello stomaco per la gran fame. Ci dividemmo in gruppetti di 3-4 militari. I miei compagni erano, uno studente abruzzese, ragazzo forte e gentile che si chiamava Marinpietro Carlo. Eravamo come due amici indivisibili. A noi si aggregò il barbiere della compagnia, ed un certo Varriale, napoletano, molto più anziano di noi due, che avevamo appena 20 anni. Arrivammo di sera in un casolare, dove vi era una donna sola. Il marito era militare ed essa ignorava la sua sorte. Aveva, come provviste, nella sua madia, solo 2 kg di farina di granoturco. Preparò con quella roba una appetitosa polenta. La mangiammo con grande appetito. Era piuttosto disgustosa, senza condimento e solo col sale. Ciò che mi commosse di più, fu il fatto che la donna, per farci dormire meglio, preparò nella casa adibita a stanza da cucina, sul pavimento, 4 materassi presi dal suo talamo nuziale. Era la prima volta che dormivamo sopra un materasso di lana.
Il mattino, di buon’ora, ci rimettemmo in cammino. Portavo sul dorso il mio zaino, che a ogni km pesava sempre di più. Le strade erano polverose, con alberi stecchiti senza foglie. Erano affollate di militari in ritirata di tutte le armi e specialità, eccettuati la Fanteria, i Bersaglieri e cavalleria che avevano il compito con la loro resistenza di ritardare l’avanzata nemica e permettere una ritirata ordinata e non caotica.
Sul ciglio della strada, si incontravano militari sfiniti dagli stenti della lunga marcia, distesi sull’erba, che a stento respiravano. Tale spettacoloso stringeva il cuore, anche perché non v’era possibilità di aiutarli, concretamente. Nelle campagne si scorgevano gruppi di militari, che con l’aiuto delle baionette, sventravano cavalli ed animali mor- ti, per cercare un po’ di cibo, per sfamarsi. La marcia continuava senza sosta fino all’imbrunire, attraverso paesetti, campagne deserte ed incolte. A sera ci fermavano alla periferia di qualche villaggio abbandonato, per riposare in qualche fienile o stalla. Il barbiere ed il Varriale andavano a caccia di pollai da dove asportavano polli, che noi poi pensavamo a cuocere per sfamarci. Dopo aver mangiato, si pensava ad altri polli, da consumare durante la giornata dopo. In meno di 20 giorni attraversammo il Piave, il Tagliamento e diverse città come Gonzaga, Pordenone, Co- negliano. Sul Tagliamento, mentre attraversavamo il lungo ponte di legno, fummo sorpresi da una pioggia dirotta che ci inzuppò come pulcini. Ci fermammo a Pieve di Guà sulla sinistra del Tagliamento. Entrammo in una casa di contadini, chiedendo di asciugarci al fuoco, ma non vollero, forse ebbero paura. Infatti pochi giorni prima, dei soldati sbandati, avevano loro rubato due mucche, che tenevano in una stalla vicino.
Sopraggiunse il giorno di Natale. Quanti ricordi, quanta nostalgia suscitava in noi quel giorno. Pensavo al presepe, che si allestiva nella chiesa madre con i pastori, l’asinello ed il bambino Gesù. E lo scampanio festoso delle campane per annunziare la nascita del Salvatore. Pensavo a casa, ai miei cari, alla guerra disastrosa. Chi sa quanto soffrivano i nostri genitori che non sapevano più niente di noi, chi eravamo in mezzo alla strada, senza mezzi, costretti a rubare le galline per sfamarci e dormire in fienili, costretti a compiere marce anche di 50 km al giorno.
Passato il Veneto, entrammo in Lombardia, in quanto dovevamo fermarci sul Po, per fare una ultima disperata re- sistenza. In provincia di Mantova vi erano stalle ben fornite di mucche. Ci ricoveravamo in stalle per difenderci dal freddo. Ci facevano compagnia le donne delle cascine che lavoravano le maglie all’uncinetto o le calze.
A S. Benedetto sul Po, sostammo per circa due mesi. Era un paesetto lindo, pulito, sulla sinistra del Po, con portici e bei negozi. Era un comune di appena seimila abitanti, ed oltre alle scuole elementari, vi era un Istituto di scuole tecniche, frequentato da molti studenti e studentesse. Quanta differenza dal mio paese natale! Le strade pulite, lar- ghe, ben lastricate, fiancheggiate con case civili, ben messe e graziosi negozi, dove la gente usciva per passeggiare e fare delle compere.
I contadini abitavano tutti nelle cascine, ben tenute, con molti animali da cortile. Casal di Principe poteva consi- derarsi una grande, sporca cascina con animali di ogni casa, in ogni cortile, con stalle maleodoranti, con mucchi di letame in ogni cortile. Quale differenza enorme fra i due paesi!
A S. Benedetto sul Po, oltre al telegrafo, funzionava anche il telefono e c’era un cinema, la scuola tecnica ed i citta- dini erano tutti civili, educati, cordiali, molto ospitali.
Nella graziosa cittadina, ci fermammo, per riorganizzarci, per circa 2 mesi. Tutti i servizi funzionavano. Si consu- mava il rancio regolarmente e si dormiva in case riscaldate.
I ragazzi del 900 intanto, fermarono gli Austriaci sul Piave, che divenne col loro sangue, il fiume sacro della Patria. Il mio maggiore, comandante del 134° Gruppo, mi ordinò di requisire un basso per adibirlo a posto di pronto soccorso, possibilmente vicino all’Ufficio del Comando.
Proprio di fronte, vidi una bella palazzina, con davanti un giardino, recinto con ringhiera di ferro. Il proprietario era un dottore veterinario, che aveva moglie ed una bella figliuola di 20 anni. Bussai al portoncino e venne ad aprir- mi la bella signorina, la quale, come prevedendo le mie intenzioni, ridendo, mi disse di non avere nessuna casa da cedermi. Ritornai dal Maggiore mortificato. Questi mi impose di requisire subito il basso, e di installarvi il Pronto Soccorso, ciò che feci. Bussai di nuovo alla signorina che venne ad aprirmi, spiegai che dovevo requisire un basso per ordine del Comando. Promisi che non avrei dato alcun disturbo. Posai il pastrano e spiegai che sarei ritornato il mattino dopo. Al Comando Supremo delle forze armate, dopo il rovescio di Caporetto, ci fu il cambio della guar- dia. Al generale Cadorna, successe il generale Armando Diaz.
Napoletano di nascita, e come tale, più evoluto, più deciso e comprensivo verso le truppe operanti al fronte; fu più duro nel chiedere la disciplina nell’esercito. L’assolutismo, come la cieca obbedienza, specie in guerra, è contropro- ducente nell’esercito, quando non viene amalgamato, dalla democrazia e dalla giustizia.
I grandi tiranni, che esercitano il comando assoluto, ottengono un rendimento inferiore a quello il cui trattamento è ispirato oltre che dalla democrazia, a un senso umanitario.
Il soldato, non è uno strumento qualsiasi. Oltre al fisico possiede un’anima, una mente, un cuore. Sfruttare questi elementi è giusto, ma bisogna usare un senso di giustizia, di umanità.
Rigore per i militari disubbidienti, ma giustizia ed umanità per chi compie il proprio dovere.
Armando Diaz instaurò questo clima nell’esercito. Gli Austriaci furono fermati sul Piave, anziché al Po. I soldati riacquistarono la fiducia nella vittoria finale, ed il loro morale crebbe.
Anch’io, dopo tante marce forzate, disagi di vario tipo, giunto a S. Benedetto del Po, con i miei compagni, acquistai più fiducia nella vita e nella vittoria finale.
In questo paesetto mantovano, bagnato dal Po, la nostra riorganizzazione fu rapida ed il nostro morale, anche per il trattamento migliore, fu più alto che nei primi giorni della guerra. La popolazione ci accolse con molto affetto. Anche nel resto d’Italia il morale crebbe dopo il primo sconforto. Con il cosiddetto bando di Cadorna, tutti i di- sertori dell’esercito che ammontavano ad oltre 200.000 furono amnistiati e quasi tutti ritornarono nei loro reparti
a combattere il nemico.
Anche a Casal di Principe, tutti i disertori che ammontavano ad oltre 300 si unirono come d’incanto con il tricolore in testa e si presentarono al Comando di Presidio di Caserta.
Si offerse di accompagnarli un maresciallo a riposo, don Beppe Di Bernardo, dell’Arma dei Carabinieri.
Questo integerrimo cittadino onorario di Casal di Principe, era oriundo siciliano. Il suo paese natale fu Partinico, vicino Palermo. Svolse la sua attività di militare prima nella stazione del nostro Comune, con grande zelo ed uma- nità, per cui conquistò la stima e la fiducia di tutta la popolazione.
Morì a Casal di Principe, nella tarda vecchiaia, stimato ed amato da tutti. Data la stima che godeva, i soldati di Casal di Principe, vollero che fossero presentati al Presidio di Caserta, da quest’uomo, così stimato. Sostammo, anzi sver- nammo a S. Benedetto del Po, per circa 2 mesi. L’inverno fu rigido. La neve cadeva di frequente, ed il nostro equi- paggiamento invernale era stato rinnovato di sana pianta. Il vitto era ottimo. La popolazione fraternizzava con noi. Avevo collocato il mio posto di pronto soccorso in un basso di fronte a quello del Veterinario. Era l’abitazione di un vigile comunale e la moglie, di circa 40 anni, si chiamava Zelinda Braghiroli, mi trattava sempre molto gentilmente. Nel pronto soccorso non affluivano molti militari, come accadeva al fronte. Restavo in quel posto poche ore al giorno, e sempre inoperoso. Un giorno che nevicava, ero solo, e pensavo con nostalgia alla mia casa lontana, ai miei cari parenti. Improvvisamente vidi di fronte al basso, la signorina, figliuola del dottore in veterinaria, che si dirigeva con una trappola di uccelli, verso il giardinetto di fronte a casa sua. Depose la trappola sulla neve candida, ed accortosi della mia presenza, mi sorrise dolcemente. Accennai anch’io ad un sorriso malinconico.
La solitudine, lo spettacolo della neve che cadeva, mi metteva addosso, col gelo, tanta tristezza. La signorina, svel- ta, sgambettando allegramente, ritornò nel giardino e ghermì nella trappola un uccellino, tremante ed affamato. Apersi le imposte, uscii e mi accostai alla ragazza, che sorrideva sempre felice! Povera bestiolina! Esclamai, era così felice nella libertà, non vedi come trema di paura? La ragazza, dapprima sconcertata, mi rispose: starà meglio nella gabbietta, con il miglio da beccare. No, replicai, sarà più felice, in libertà, di volare per il cielo. Avevo letto la storia di una capinera di Verga, e mi ero tanto commosso, per cui insistetti. Dagli la libertà, tu che sei tanto gentile e cer- tamente avrai un animo buono e sensibile. A queste mie parole inaspettate, divenne seria, aprì la mano e l’uccellino tremante, prese subito il volo.
Rimase lì sulla neve, a pochi passi da me, e non volle entrare subito in casa. Ci guardammo negli occhi; non so, come fu. Un’ondata di sentimenti, di gratitudine, mi salì al cuore. Ti ammiro molto, bella signorina, dissi, per il bel gesto che hai compiuto. Il tuo gesto, ha fatto nascere nel mio cuore, un sentimento d’amore per te. La fanciulla sor- rideva, non credeva alle mie parole. Se fossi un raggio di sole, vorrei illuminare il tuo bel viso, se fossi una farfalla, vorrei battere le ali sui tuoi biondi capelli, se fossi un fiore, vorrei avvizzire sul tuo seno candido.
Erano reminescenze del liceo, di poesie di D’Annunzio, spifferate lì improvvisamente, sia per darmi un contegno, sia in attesa della reazione della bella fanciulla. Questa, sembrava gradire, quelle mie parole e rideva, per la felicità che provava. Scappò via, tutta emozionata, dopo avermi salutato con un sorriso, significativo.
Così nacque, improvvisamente il dolce idillio, tra me e la dolce e cara fanciulla. Seppi il suo nome: Giovanna Todini. I giorni che seguirono ci vedemmo ancora, lei sempre sorridente, quasi incredula di quanto aveva sentito. Sostammo in S. Benedetto appena 60 giorni.
Dopo fummo trasferiti a Piacenza, dove esistevano i depositi di materiale bellico. In quella città, attraversata dal Po, ci rifornimmo di nuovi mortai 210, e di tutto l’occorrente per ritornare al fronte. Mi rifornii della cassetta di Pronto Soccorso, per un pronto intervento. Nella città di Piacenza entrai in possesso di un bellissimo cane, di nome Moro, dal pelo nerissimo, un incrocio di razza Terranova – S. Bernardo; era una meravigliosa bestia, molto intelligente. Appartenuta ad un battaglione degli alpini, erasi dispersa, durante una battaglia. Portava al collo una medaglietta, come tutti i soldati combattenti al fronte. Forse era stato adibito dagli alpini, nel ritrovamento di eventuali soldati dispersi o caduti in qualche burrone. Il meraviglioso esemplare, mi fu dato in consegna dal Comando del Gruppo. Fu un mio amico devoto ed indivisibile. Eseguiva i miei ordini, con ubbidienza cieca ed assoluta, con occhi dall’e- spressione quasi umana. Mi seguiva sempre dappertutto. Per precauzione, lo portavo sempre col guinzaglio e con la museruola, perché era ferocissimo, e molto agile, come un leoncino.
Una sola volta gli permisi di azzuffarsi con un molosso del maresciallo del 24° Artiglieria, e se non lo avessi richia- mato, lo avrebbe sbranato.
Povero Moro! Quando, dopo circa un mese, partimmo da Piacenza, con una lunghissima tradotta militare, la po- vera bestia, che viaggiava con noi, scese dalla tradotta per evacuare, il convoglio partì subito, ed il cane rimase a terra. Nella città emiliana, ebbi la felice occasione di incontrare l’on. Nitti alla casa del soldato. Era in giro, dopo il rovescio di Caporetto, per scopo di propaganda. Con parole semplici, suadenti, convinceva i soldati presenti, a resistere, per il bene della Patria, con ogni sforzo al nemico. Era un uomo piccolo, mingherlino, piuttosto basso, ma
di una intelligenza ed oratoria eccezionale.
Dalle notizie della Stampa, appresi che il fronte russo era crollato sotto l’urto potente teutonico. Il generalissimo tedesco Inderburg li aveva sbaragliati ai laghi Masuriani ed indietreggiavano in disordine. Sui Carpazi anche gli austroungarici liquidarono il fronte russo. L’esercito russo, demoralizzato dalla sconfitta, sobillato da Lenin, ed i suoi seguaci, depose le armi ed il governo dello zar Nicola II fu costretto alla pace separata con gli imperi centrali. La nostra tradotta, giunse a Schio, in provincia di Vicenza. La sera stessa c’incolonnarono verso le Dolomiti e raggiungemmo il monte Malgafieno, ad una quota di circa 2.000 metri di altezza. Di fronte, troneggiava, tutto ammantato di neve, il massiccio del Pasubio, che era presidiato in parte, dai nostri soldati. Dalla Terrazza del Mal- gafieno tutto ammantato di bianco, come tutta la catena delle Dolomiti, si ammirava uno spettacolo allucinante,
con burroni spaventosi, ed abissi colossali.
A guardare in giù, veniva il capogiro. La temperatura era rigida, e si tremava dal freddo. Il mio soggiorno lassù durò solo pochi mesi. Assistetti alla presa di monte Corno. Le nostre batterie di mortai, demolirono le posizioni nemiche, sparando molte bordate, durante la notte. Al mattino, un reparto di arditi, occupò la posizione con un colpo di mano. Assistere da vicino, ad un cannoneggiamento con pezzi di grosso calibro, è uno spettacolo terrifi- cante. Assieme al boato, si vede un grosso proiettile di 70 km uscire da una bocca di fuoco, con un rumore, tipo tuono lontano, che cade sul bersaglio nemico, con un tiro indiretto, cioè, senza vedere la posizione da colpire. Mi ero orami adattato al freddo in quelle montagne impervie.
Il pronto soccorso era stato collocato nel fianco del monte, in una piccola casetta, costruita con pietre a secco, ricoperta da lamiere e con rami di piante, specie di pini nani, da cui si ricava il mugolio, per mimetizzarla di fronte al nemico. In guerra, raramente si rispettano le leggi internazionali e della Croce Rossa. Si tira all’impazzata, contro tutti, si distrugge tutto, senza tanti scrupoli. Lo scopo finale è la vittoria. Venne intanto l’ordine dal comando della terza armata del mio trasferimento all’ospedale da campo 0,63.
Un semplice caporale, anche se studente in medicina, non poteva dirigere un posto di pronto soccorso, in prima linea per la sua imperizia e incompetenza. Fui sostituito da un aspirante medico.
Raggiunsi Schio, con foglio di trasferimento. L’ospedale da Campo 0,63 era situato nell’istituto delle scuole tec- niche. Era diretto da un maggiore medico, sardo di cognome Basso, ed era composto di tre reparti: di medicina, chirurgia, e dermosifilopatia. Fui assegnato al reparto di medicina. Era un vasto salone con una cinquantina di lettini bianchi, allineati, con ammalati gravi che non potevano essere trasportati nelle retrovie, Caporeparto, era un capitano medico, assistente al policlinico di Torino, ed era coadiuvato da una dama della Croce Rossa, la marchesa Cristina Onorato, molto attiva che si prodigava verso gli ammalati con molto amorevolezza come una mamma. Io seguivo il capitano nelle visite al mattino, redigevo le cartelle cliniche, e sorvegliavo gli infermieri. Avevo più tempo per studiare, la vita per me trascorreva più serena, e nello stesso tempo apprendevo tante cose, praticamente.
Al mio reparto, vi era aggregato, anche un frate cappuccino, tale Padre Gaiga, ma in verità, non si vedeva mai nelle corsie, neppure quando ogni settimana dovevo compilare le cartelle cliniche per smistare i militari migliorati e tra- sferirli nella retrovia. Decisi di vendicarmi di questo fannullone, ed un giorno che arrivò tardi, senza alcun permes- so, gli redassi un biglietto di punizione, nella mia qualità di sergente (essendo stato promosso per la mia qualifica di studente in medicina). Gli altri miei colleghi (eravamo 10 studenti in medicina) mi fecero ritirare il biglietto di proposta per la punizione. Seppi poi che padre Gaiga era il confessore della dama della Croce Rossa, del reparto di chirurgia, una bella donna, per cui non svolgeva alcuna attività nell’ospedale.
Della bella città di Schio conservo un bel ricordo. Le sue strade, la sua gente cordiale e laboriosa, rappresentavano una dimostrazione di benessere e progresso economico e civile. Nella sua periferia sorgevano i famosi stabilimenti di lana, Rossi, che davano lavoro a tutta la città. Schio, era sotto il tiro dei cannoni austriaci, ed un brutto giorno, verso le cinque del mattino, incominciò il bombardamento della città, con cannoni di lunga gittata (305). Un grosso proiettile spezzò via mezza baracca, dove ero alloggiato; mi salvai per miracolo.
Dopo quello scampato pericolo, la vita ospedaliera continuò tranquilla. Nei primi giorni del novembre 1918, la dama della Croce Rossa, che si vantava di essere anche dama di corte e di avere molte aderenze ed amicizia anche in alto, mi confidò che entro pochi giorni si sarebbe conclusa la pace. A Villa Giusti, nelle vicinanze di Schio, già erano arrivati i plenipotenziari austriaci, per chiedere l’armistizio e la fine della guerra. Ero incredulo. Pensavo, che la guerra, sarebbe continuata ancora per molto. Il 4 novembre, come un lampo, si diffuse la lieta notizia.
Nella piazza principale, un maggiore, da un balcone, arringò la folla, che era costituita da militari di tutte le armi. La piazza era completamente gremita: Soldati! col vostro sacrificio, col sangue versato da tanti nostri commilitoni, iniziò l’oratore, abbiamo ottenuto la vittoria, contro il nostro secolare nemico. Grida di gioia, di applausi della folla, coronò queste ultime fatidiche parole. Ci abbracciammo l’un l’altro, senza neanche conoscerci. Qualcuno piangeva dalla gioia. Cominciò uno scampanio a festa di tutte le chiese di Schio, e specie della Cattedrale. L’armistizio era stata la conseguenza dell’avanzata incontrastata di Vittorio Veneto. Uno scampanio festoso, che rassomigliava ad una musica; seguirono colpi di cannone a salve. Cortei, luminarie, baldoria, canti guerreschi, si protrassero tutta la notte. La città sembrava impazzita dalla gioia. Lo spettacolo più travolgente, più commovente, si verificò dopo qualche giorni. Tutti i raggruppamenti di artiglieria, schierati sulle Dolomiti con i loro pezzi, scendevano rumorosamente a valle, con canti di gioia dei baldi artiglieri, seduti sugli affusti dei cannoni. Con la conclusione dell’armistizio, era terminata la guerra, con la sua sequela di stragi, morti, feriti, distruzioni di beni, di città e villaggi, e dopo qualche mese iniziò il congedo dei militari. Furono le classi più anziane appartenenti alla territoriale, che furono mandati a casa per prime.
Tali classi, durante la lunga guerra, ed in casi eccezionali, erano state anche mandate in prima linea, e si erano bat- tute da leoni.
Le classi più giovani, ebbero l’onore di occupare le città irredente, di Trento e Trieste. “
(Scipione Letizia “Un paese fuori legge”Napoletana 1977 )
Il nostro era un piccolo paese di contadini e delle ragioni della guerra pochi capivano. “Bisogna liberare Trieste e Trento”, al massimo si diceva. Partirono in tanti: giovanissimi, giovani e padri di famiglia. Lasciarono nell’angoscia genitori, sorelle, mogli, figli…
Ignoravano, molti, che cosa significasse la guerra e poi contro un nemico più forte di noi, per uomini e mezzi.
Il battesimo del fuoco, nei primi giorni dell’intervento, lo ricevette il 15° reggimento di Fanteria. Di esso facevano parte un plotone di soldati e graduati tutti di Casal di Principe. Il plotone fu quasi decimato da morti e feriti. Lo stesso comandante cadde ferito gravemente e riportò un’invalidità permanente. Dopo pochi giorni giunse il triste annunzio a Casal di Principe, della morte dei soldati Oronos Antonio di Michele e di Cirillo Luigi di Francesc e di diversi altri militari. La notizia dei feriti giunse alle rispettive famiglie con ritardo
Tutti appresero così, coi fatti, che la guerra porta solo lutti e spargimento di sangue.
Con la chiamata in guerra di ben 20 classi, la campagna di Casal di Principe rimase deserta. Le donne supplirono gli uomini nella conduzione delle terre. A causa della guerra, i prezzi degli alimenti cominciarono a salire. Casal di Principe, paese eminentemente agricolo, si giovò di questo e le condizioni economiche un po’ migliorarono. Anche i salari ed il costo di lavoro aumentarono con vantaggio dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ma intanto a Casale continuavano a giungere notizie di morti e feriti in guerra. Si piangevano i morti in molte fami- glie. Giunse la notizia anche della morte del Sergente dei bersaglieri De Angelis Giuseppe di Saverio caduto nella battaglia della Bainsizza, un giovane di buona famiglia, molto stimato ed amato in paese.
Molti soldati, appena giungevano presso le loro famiglie in licenza, non ritornavano più al fronte, preferivano la diserzione. Non era viltà, ma quella guerra proprio non la capivano e stava diventando troppo lunga e massacrante. Scipione Letizia ,nostro concittadino, nel suo libro su Casal di Principe, così racconta la sua esperienza della I guerra Mondiale
“Alla fine del 1917, e precisamente nel novembre, l’esercito austriaco tentò un colpo di forza sul fronte del Friuli Venezia Giulia.Anch’io, essendo un imberbe 19enne mi trovavo già sotto le armi fin dall’ottobre 1916.Altri due miei fratelli maggiori, Andrea e Raffaele, già servivano la patria in guerra ed erano in zona di operazione fin dall’i- nizio dello scoppio della guerra contro l’Austria.
Ero stato trasferito, insieme al Comando del 134° Gruppo di assedio, in una località boscosa, sul monte Humm, di fronte a Tolmino. Poco distante dalle nostre posizioni sorgevano un gruppo di casolari, con un campanile che svettava alto ed una chiesetta in mezzo ad un bosco folto di castagni, in cui il sole non riusciva a penetrare per la densità. Le batterie erano postate su piazzuole e mimitizzate con foglie d’alberi. Noi dormivano e ci nascondevamo nelle caverne scavate dal genio. Si era al sicuro da ogni offesa del nemico. Si riposava avvolti nelle coperte e nei pa- strani. Solo le scarpe venivano slacciate e le fasce che avvolgevano come gambali le gambe. Le prime notti, in zona d’operazione, con un’oscurità profonda, con un silenzio assoluto, rotto solo da qualche crepitio di mitragliatrice, rimangono scolpite per sempre nell’animo. Si dorme nel dormiveglia, scosso dal lugubre stormire del vento fra i castagni. E’ l’ora in cui si pensa alla casa, la mamma, i propri cari, alle comodità lasciate, al lettino e ti ritrovi con gli occhi gonfi d’umidità, con la testa pesante in una caverna. E’ l’ora in cui tutto il patriottismo, l’amore di patria, il dovere svaniscono e si maledice la guerra, gli uomini che l’hanno scatenata, i sacrifici che bisognava affrontare tutti i giorni.
Dopo alcune nottate passate in questi luoghi, un mattino, svegliandomi, sentii, delle gentili voci di donne: Grappa, Grappin! Apersi gli occhi, e vidi delle donne altre, grassocce, graziose. Mi sembrava di sognare. Come era possibile che bellissime ragazze si avventurassero nelle nostre linee senza aver paura della guerra e dei soldati?
Cercai di toccarle, non credendo ai miei occhi: erano tre belle ragazze friulane, che abitavano in quel gruppetto di casolari col campanile alto, denominato Tribil di Sopra. Erano venute ad offrirci la Grappa Julia. Un bicchierino 20 centesimi. Tutti acquistammo e sorseggiammo con molto piacere i bicchierini. Ritornarono ogni mattina e si offrirono anche di lavarci la biancheria sporca, con poca remunerazione. Avevo sistemato la cassetta del pronto soccorso in un angolo. Ero stato nominato aiutante di sanità al comando del 134° Gruppo di assedio, essendo iscritto all’università di Napoli, alla facoltà di medicina e chirurgia. Il mio compito non era molto difficile: qualche
medicazione, una compressa di aspirina o chinino nei casi lievi e l’invio alla sezione di sanità in caso più difficile o grave.
In una brutta sera dell’ultima decade di novembre del ’17, iniziò l’offensiva austriaca di Caporetto. Dapprima fu un cannoneggiamento a tratti, poi si intensificò, divenne martellante, infernale, durante la notte. I proiettili di cannone di grosso calibro cadevano e scoppiavano dappertutto. Era un bombardamento a tappeto, come si dice nel gergo militare. Si aprivano buche nella strada, si schiantavano al suolo numerose piante di castagno, che accrescevano il frastuono. Il bombardamento non aveva sosta, era tambureggiante, senza tregua. Migliaia di bocche da fuoco vomitavano in tutta la zona sulle nostre linee, miriadi di proiettili di tutte le dimensioni con risultati ed effetti rac- capriccianti. E così questo inferno durò ore ed ore.
Notai che i nostri pezzi di artiglieria piazzati di fronte al nemico, tacevano. Perché questo silenzio?, perché non si contrabbatteva al fuoco nemico?, mi arrovellavo. Sarà per strategia? Per trarre in inganno il nemico? Certo che i nostri 12 mortai piazzati con tanta fatica, tacevano e non sparavano neppure un colpo. Per piazzare i predetti mortai avevamo una grande fatica. Ed ora che dovevano entrare in azione, tacevano. Fu un tradimento? La storia di Caporetto non ha ancora risolto tale mistero. Si parlò di dissenso, di disaccordo tra il generale di C.A. Capello ed il generale Cadorna. Sarà vero?
Certamente, se avessimo contrabbattuto, il nemico non avrebbe sfondato il fronte, tenuto tanto saldamente dai nostri soldati. Verso sera del giorno dopo, i nostri cominciarono a rispondere al fuoco nemico con bordate di tutte le batteria. Fu troppo tardi. Le nostre truppe di prima linea, demoralizzate, cedettero le posizioni e cominciarono a ritirarsi dopo aver lasciato migliaia di morti sul terreno ed interi reparti di prigionieri. Verso le ore 19, buio pesto, il bombardamento nemico cessò. Un alpino con il volto sanguinante, sfuggito forse al massacro ed alla cattura degli austriaci, che avanzavano, si rifugiò nel posto di pronto soccorso, per una medicazione al viso. Mi riferì con poche parole, quello che era successo. La battaglia era ancora in corso, ma le nostre truppe si ritiravano, molte erano state accerchiate e senza via di scampo. Preparai il mio zaino con tutto l’occorrente ed attesi l’ordine dei miei superiori. Dopo qualche ora i nostri pezzi tacquero definitivamente, e gli ufficiali ci ordinarono la ritirata. La triste odissea di Caporetto durò alcuni mesi. Il nostro reparto con tutto il comando si ritirò ordinatamente. Viaggiammo tutta la notte, illuminati a tratti da scoppi di granate, sparate dagli austriaci, per tagliarci la ritirata. Camminavamo carponi per terra mentre le pallottole ci fischiavano intorno, senza colpirci. Dopo aver viaggiato tutta la notte, raggiun- gemmo all’alba Primeriacco, un paesetto della provincia di Udine. In questa località ci accampammo circa 30.000 artiglieri e vi passammo la notte all’addiaccio.
Ebbi qui la fortuna di incontrare mio fratello Andrea, che faceva parte di un reparto di sussistenza con forni Weiss. E’ inutile descrivere la gioia di entrambi. Restammo abbracciati per molti minuti. Era all’oscuro della rotta di Ca- poretto. Rimase allibito. Mi fornì alcune pagnotte di pane, e subito dopo ci lasciammo perché dovevo seguire il mio reparto, mentre il suo rimase lì ancora per alcuni giorni. Incontrammo un reggimento di cavalleggeri, con le sciabole sguainate, che cercavano di fronteggiare il nemico e ritardarne l’avanzata. Seppi poi che l’eroico gruppo di cavalleggeri, di fronte al gran numero dei nemici, furono tutti trucidati.
Pian piano puntammo su Verona, che sembrava deserta di civili, ma affollata da soldati in ritirata. Proseguimmo la marcia con difficoltà coi crampi nello stomaco per la gran fame. Ci dividemmo in gruppetti di 3-4 militari. I miei compagni erano, uno studente abruzzese, ragazzo forte e gentile che si chiamava Marinpietro Carlo. Eravamo come due amici indivisibili. A noi si aggregò il barbiere della compagnia, ed un certo Varriale, napoletano, molto più anziano di noi due, che avevamo appena 20 anni. Arrivammo di sera in un casolare, dove vi era una donna sola. Il marito era militare ed essa ignorava la sua sorte. Aveva, come provviste, nella sua madia, solo 2 kg di farina di granoturco. Preparò con quella roba una appetitosa polenta. La mangiammo con grande appetito. Era piuttosto disgustosa, senza condimento e solo col sale. Ciò che mi commosse di più, fu il fatto che la donna, per farci dormire meglio, preparò nella casa adibita a stanza da cucina, sul pavimento, 4 materassi presi dal suo talamo nuziale. Era la prima volta che dormivamo sopra un materasso di lana.
Il mattino, di buon’ora, ci rimettemmo in cammino. Portavo sul dorso il mio zaino, che a ogni km pesava sempre di più. Le strade erano polverose, con alberi stecchiti senza foglie. Erano affollate di militari in ritirata di tutte le armi e specialità, eccettuati la Fanteria, i Bersaglieri e cavalleria che avevano il compito con la loro resistenza di ritardare l’avanzata nemica e permettere una ritirata ordinata e non caotica.
Sul ciglio della strada, si incontravano militari sfiniti dagli stenti della lunga marcia, distesi sull’erba, che a stento respiravano. Tale spettacoloso stringeva il cuore, anche perché non v’era possibilità di aiutarli, concretamente. Nelle campagne si scorgevano gruppi di militari, che con l’aiuto delle baionette, sventravano cavalli ed animali mor- ti, per cercare un po’ di cibo, per sfamarsi. La marcia continuava senza sosta fino all’imbrunire, attraverso paesetti, campagne deserte ed incolte. A sera ci fermavano alla periferia di qualche villaggio abbandonato, per riposare in qualche fienile o stalla. Il barbiere ed il Varriale andavano a caccia di pollai da dove asportavano polli, che noi poi pensavamo a cuocere per sfamarci. Dopo aver mangiato, si pensava ad altri polli, da consumare durante la giornata dopo. In meno di 20 giorni attraversammo il Piave, il Tagliamento e diverse città come Gonzaga, Pordenone, Co- negliano. Sul Tagliamento, mentre attraversavamo il lungo ponte di legno, fummo sorpresi da una pioggia dirotta che ci inzuppò come pulcini. Ci fermammo a Pieve di Guà sulla sinistra del Tagliamento. Entrammo in una casa di contadini, chiedendo di asciugarci al fuoco, ma non vollero, forse ebbero paura. Infatti pochi giorni prima, dei soldati sbandati, avevano loro rubato due mucche, che tenevano in una stalla vicino.
Sopraggiunse il giorno di Natale. Quanti ricordi, quanta nostalgia suscitava in noi quel giorno. Pensavo al presepe, che si allestiva nella chiesa madre con i pastori, l’asinello ed il bambino Gesù. E lo scampanio festoso delle campane per annunziare la nascita del Salvatore. Pensavo a casa, ai miei cari, alla guerra disastrosa. Chi sa quanto soffrivano i nostri genitori che non sapevano più niente di noi, chi eravamo in mezzo alla strada, senza mezzi, costretti a rubare le galline per sfamarci e dormire in fienili, costretti a compiere marce anche di 50 km al giorno.
Passato il Veneto, entrammo in Lombardia, in quanto dovevamo fermarci sul Po, per fare una ultima disperata re- sistenza. In provincia di Mantova vi erano stalle ben fornite di mucche. Ci ricoveravamo in stalle per difenderci dal freddo. Ci facevano compagnia le donne delle cascine che lavoravano le maglie all’uncinetto o le calze.
A S. Benedetto sul Po, sostammo per circa due mesi. Era un paesetto lindo, pulito, sulla sinistra del Po, con portici e bei negozi. Era un comune di appena seimila abitanti, ed oltre alle scuole elementari, vi era un Istituto di scuole tecniche, frequentato da molti studenti e studentesse. Quanta differenza dal mio paese natale! Le strade pulite, lar- ghe, ben lastricate, fiancheggiate con case civili, ben messe e graziosi negozi, dove la gente usciva per passeggiare e fare delle compere.
I contadini abitavano tutti nelle cascine, ben tenute, con molti animali da cortile. Casal di Principe poteva consi- derarsi una grande, sporca cascina con animali di ogni casa, in ogni cortile, con stalle maleodoranti, con mucchi di letame in ogni cortile. Quale differenza enorme fra i due paesi!
A S. Benedetto sul Po, oltre al telegrafo, funzionava anche il telefono e c’era un cinema, la scuola tecnica ed i citta- dini erano tutti civili, educati, cordiali, molto ospitali.
Nella graziosa cittadina, ci fermammo, per riorganizzarci, per circa 2 mesi. Tutti i servizi funzionavano. Si consu- mava il rancio regolarmente e si dormiva in case riscaldate.
I ragazzi del 900 intanto, fermarono gli Austriaci sul Piave, che divenne col loro sangue, il fiume sacro della Patria. Il mio maggiore, comandante del 134° Gruppo, mi ordinò di requisire un basso per adibirlo a posto di pronto soccorso, possibilmente vicino all’Ufficio del Comando.
Proprio di fronte, vidi una bella palazzina, con davanti un giardino, recinto con ringhiera di ferro. Il proprietario era un dottore veterinario, che aveva moglie ed una bella figliuola di 20 anni. Bussai al portoncino e venne ad aprir- mi la bella signorina, la quale, come prevedendo le mie intenzioni, ridendo, mi disse di non avere nessuna casa da cedermi. Ritornai dal Maggiore mortificato. Questi mi impose di requisire subito il basso, e di installarvi il Pronto Soccorso, ciò che feci. Bussai di nuovo alla signorina che venne ad aprirmi, spiegai che dovevo requisire un basso per ordine del Comando. Promisi che non avrei dato alcun disturbo. Posai il pastrano e spiegai che sarei ritornato il mattino dopo. Al Comando Supremo delle forze armate, dopo il rovescio di Caporetto, ci fu il cambio della guar- dia. Al generale Cadorna, successe il generale Armando Diaz.
Napoletano di nascita, e come tale, più evoluto, più deciso e comprensivo verso le truppe operanti al fronte; fu più duro nel chiedere la disciplina nell’esercito. L’assolutismo, come la cieca obbedienza, specie in guerra, è contropro- ducente nell’esercito, quando non viene amalgamato, dalla democrazia e dalla giustizia.
I grandi tiranni, che esercitano il comando assoluto, ottengono un rendimento inferiore a quello il cui trattamento è ispirato oltre che dalla democrazia, a un senso umanitario.
Il soldato, non è uno strumento qualsiasi. Oltre al fisico possiede un’anima, una mente, un cuore. Sfruttare questi elementi è giusto, ma bisogna usare un senso di giustizia, di umanità.
Rigore per i militari disubbidienti, ma giustizia ed umanità per chi compie il proprio dovere.
Armando Diaz instaurò questo clima nell’esercito. Gli Austriaci furono fermati sul Piave, anziché al Po. I soldati riacquistarono la fiducia nella vittoria finale, ed il loro morale crebbe.
Anch’io, dopo tante marce forzate, disagi di vario tipo, giunto a S. Benedetto del Po, con i miei compagni, acquistai più fiducia nella vita e nella vittoria finale.
In questo paesetto mantovano, bagnato dal Po, la nostra riorganizzazione fu rapida ed il nostro morale, anche per il trattamento migliore, fu più alto che nei primi giorni della guerra. La popolazione ci accolse con molto affetto. Anche nel resto d’Italia il morale crebbe dopo il primo sconforto. Con il cosiddetto bando di Cadorna, tutti i di- sertori dell’esercito che ammontavano ad oltre 200.000 furono amnistiati e quasi tutti ritornarono nei loro reparti
a combattere il nemico.
Anche a Casal di Principe, tutti i disertori che ammontavano ad oltre 300 si unirono come d’incanto con il tricolore in testa e si presentarono al Comando di Presidio di Caserta.
Si offerse di accompagnarli un maresciallo a riposo, don Beppe Di Bernardo, dell’Arma dei Carabinieri.
Questo integerrimo cittadino onorario di Casal di Principe, era oriundo siciliano. Il suo paese natale fu Partinico, vicino Palermo. Svolse la sua attività di militare prima nella stazione del nostro Comune, con grande zelo ed uma- nità, per cui conquistò la stima e la fiducia di tutta la popolazione.
Morì a Casal di Principe, nella tarda vecchiaia, stimato ed amato da tutti. Data la stima che godeva, i soldati di Casal di Principe, vollero che fossero presentati al Presidio di Caserta, da quest’uomo, così stimato. Sostammo, anzi sver- nammo a S. Benedetto del Po, per circa 2 mesi. L’inverno fu rigido. La neve cadeva di frequente, ed il nostro equi- paggiamento invernale era stato rinnovato di sana pianta. Il vitto era ottimo. La popolazione fraternizzava con noi. Avevo collocato il mio posto di pronto soccorso in un basso di fronte a quello del Veterinario. Era l’abitazione di un vigile comunale e la moglie, di circa 40 anni, si chiamava Zelinda Braghiroli, mi trattava sempre molto gentilmente. Nel pronto soccorso non affluivano molti militari, come accadeva al fronte. Restavo in quel posto poche ore al giorno, e sempre inoperoso. Un giorno che nevicava, ero solo, e pensavo con nostalgia alla mia casa lontana, ai miei cari parenti. Improvvisamente vidi di fronte al basso, la signorina, figliuola del dottore in veterinaria, che si dirigeva con una trappola di uccelli, verso il giardinetto di fronte a casa sua. Depose la trappola sulla neve candida, ed accortosi della mia presenza, mi sorrise dolcemente. Accennai anch’io ad un sorriso malinconico.
La solitudine, lo spettacolo della neve che cadeva, mi metteva addosso, col gelo, tanta tristezza. La signorina, svel- ta, sgambettando allegramente, ritornò nel giardino e ghermì nella trappola un uccellino, tremante ed affamato. Apersi le imposte, uscii e mi accostai alla ragazza, che sorrideva sempre felice! Povera bestiolina! Esclamai, era così felice nella libertà, non vedi come trema di paura? La ragazza, dapprima sconcertata, mi rispose: starà meglio nella gabbietta, con il miglio da beccare. No, replicai, sarà più felice, in libertà, di volare per il cielo. Avevo letto la storia di una capinera di Verga, e mi ero tanto commosso, per cui insistetti. Dagli la libertà, tu che sei tanto gentile e cer- tamente avrai un animo buono e sensibile. A queste mie parole inaspettate, divenne seria, aprì la mano e l’uccellino tremante, prese subito il volo.
Rimase lì sulla neve, a pochi passi da me, e non volle entrare subito in casa. Ci guardammo negli occhi; non so, come fu. Un’ondata di sentimenti, di gratitudine, mi salì al cuore. Ti ammiro molto, bella signorina, dissi, per il bel gesto che hai compiuto. Il tuo gesto, ha fatto nascere nel mio cuore, un sentimento d’amore per te. La fanciulla sor- rideva, non credeva alle mie parole. Se fossi un raggio di sole, vorrei illuminare il tuo bel viso, se fossi una farfalla, vorrei battere le ali sui tuoi biondi capelli, se fossi un fiore, vorrei avvizzire sul tuo seno candido.
Erano reminescenze del liceo, di poesie di D’Annunzio, spifferate lì improvvisamente, sia per darmi un contegno, sia in attesa della reazione della bella fanciulla. Questa, sembrava gradire, quelle mie parole e rideva, per la felicità che provava. Scappò via, tutta emozionata, dopo avermi salutato con un sorriso, significativo.
Così nacque, improvvisamente il dolce idillio, tra me e la dolce e cara fanciulla. Seppi il suo nome: Giovanna Todini. I giorni che seguirono ci vedemmo ancora, lei sempre sorridente, quasi incredula di quanto aveva sentito. Sostammo in S. Benedetto appena 60 giorni.
Dopo fummo trasferiti a Piacenza, dove esistevano i depositi di materiale bellico. In quella città, attraversata dal Po, ci rifornimmo di nuovi mortai 210, e di tutto l’occorrente per ritornare al fronte. Mi rifornii della cassetta di Pronto Soccorso, per un pronto intervento. Nella città di Piacenza entrai in possesso di un bellissimo cane, di nome Moro, dal pelo nerissimo, un incrocio di razza Terranova – S. Bernardo; era una meravigliosa bestia, molto intelligente. Appartenuta ad un battaglione degli alpini, erasi dispersa, durante una battaglia. Portava al collo una medaglietta, come tutti i soldati combattenti al fronte. Forse era stato adibito dagli alpini, nel ritrovamento di eventuali soldati dispersi o caduti in qualche burrone. Il meraviglioso esemplare, mi fu dato in consegna dal Comando del Gruppo. Fu un mio amico devoto ed indivisibile. Eseguiva i miei ordini, con ubbidienza cieca ed assoluta, con occhi dall’e- spressione quasi umana. Mi seguiva sempre dappertutto. Per precauzione, lo portavo sempre col guinzaglio e con la museruola, perché era ferocissimo, e molto agile, come un leoncino.
Una sola volta gli permisi di azzuffarsi con un molosso del maresciallo del 24° Artiglieria, e se non lo avessi richia- mato, lo avrebbe sbranato.
Povero Moro! Quando, dopo circa un mese, partimmo da Piacenza, con una lunghissima tradotta militare, la po- vera bestia, che viaggiava con noi, scese dalla tradotta per evacuare, il convoglio partì subito, ed il cane rimase a terra. Nella città emiliana, ebbi la felice occasione di incontrare l’on. Nitti alla casa del soldato. Era in giro, dopo il rovescio di Caporetto, per scopo di propaganda. Con parole semplici, suadenti, convinceva i soldati presenti, a resistere, per il bene della Patria, con ogni sforzo al nemico. Era un uomo piccolo, mingherlino, piuttosto basso, ma
di una intelligenza ed oratoria eccezionale.
Dalle notizie della Stampa, appresi che il fronte russo era crollato sotto l’urto potente teutonico. Il generalissimo tedesco Inderburg li aveva sbaragliati ai laghi Masuriani ed indietreggiavano in disordine. Sui Carpazi anche gli austroungarici liquidarono il fronte russo. L’esercito russo, demoralizzato dalla sconfitta, sobillato da Lenin, ed i suoi seguaci, depose le armi ed il governo dello zar Nicola II fu costretto alla pace separata con gli imperi centrali. La nostra tradotta, giunse a Schio, in provincia di Vicenza. La sera stessa c’incolonnarono verso le Dolomiti e raggiungemmo il monte Malgafieno, ad una quota di circa 2.000 metri di altezza. Di fronte, troneggiava, tutto ammantato di neve, il massiccio del Pasubio, che era presidiato in parte, dai nostri soldati. Dalla Terrazza del Mal- gafieno tutto ammantato di bianco, come tutta la catena delle Dolomiti, si ammirava uno spettacolo allucinante,
con burroni spaventosi, ed abissi colossali.
A guardare in giù, veniva il capogiro. La temperatura era rigida, e si tremava dal freddo. Il mio soggiorno lassù durò solo pochi mesi. Assistetti alla presa di monte Corno. Le nostre batterie di mortai, demolirono le posizioni nemiche, sparando molte bordate, durante la notte. Al mattino, un reparto di arditi, occupò la posizione con un colpo di mano. Assistere da vicino, ad un cannoneggiamento con pezzi di grosso calibro, è uno spettacolo terrifi- cante. Assieme al boato, si vede un grosso proiettile di 70 km uscire da una bocca di fuoco, con un rumore, tipo tuono lontano, che cade sul bersaglio nemico, con un tiro indiretto, cioè, senza vedere la posizione da colpire. Mi ero orami adattato al freddo in quelle montagne impervie.
Il pronto soccorso era stato collocato nel fianco del monte, in una piccola casetta, costruita con pietre a secco, ricoperta da lamiere e con rami di piante, specie di pini nani, da cui si ricava il mugolio, per mimetizzarla di fronte al nemico. In guerra, raramente si rispettano le leggi internazionali e della Croce Rossa. Si tira all’impazzata, contro tutti, si distrugge tutto, senza tanti scrupoli. Lo scopo finale è la vittoria. Venne intanto l’ordine dal comando della terza armata del mio trasferimento all’ospedale da campo 0,63.
Un semplice caporale, anche se studente in medicina, non poteva dirigere un posto di pronto soccorso, in prima linea per la sua imperizia e incompetenza. Fui sostituito da un aspirante medico.
Raggiunsi Schio, con foglio di trasferimento. L’ospedale da Campo 0,63 era situato nell’istituto delle scuole tec- niche. Era diretto da un maggiore medico, sardo di cognome Basso, ed era composto di tre reparti: di medicina, chirurgia, e dermosifilopatia. Fui assegnato al reparto di medicina. Era un vasto salone con una cinquantina di lettini bianchi, allineati, con ammalati gravi che non potevano essere trasportati nelle retrovie, Caporeparto, era un capitano medico, assistente al policlinico di Torino, ed era coadiuvato da una dama della Croce Rossa, la marchesa Cristina Onorato, molto attiva che si prodigava verso gli ammalati con molto amorevolezza come una mamma. Io seguivo il capitano nelle visite al mattino, redigevo le cartelle cliniche, e sorvegliavo gli infermieri. Avevo più tempo per studiare, la vita per me trascorreva più serena, e nello stesso tempo apprendevo tante cose, praticamente.
Al mio reparto, vi era aggregato, anche un frate cappuccino, tale Padre Gaiga, ma in verità, non si vedeva mai nelle corsie, neppure quando ogni settimana dovevo compilare le cartelle cliniche per smistare i militari migliorati e tra- sferirli nella retrovia. Decisi di vendicarmi di questo fannullone, ed un giorno che arrivò tardi, senza alcun permes- so, gli redassi un biglietto di punizione, nella mia qualità di sergente (essendo stato promosso per la mia qualifica di studente in medicina). Gli altri miei colleghi (eravamo 10 studenti in medicina) mi fecero ritirare il biglietto di proposta per la punizione. Seppi poi che padre Gaiga era il confessore della dama della Croce Rossa, del reparto di chirurgia, una bella donna, per cui non svolgeva alcuna attività nell’ospedale.
Della bella città di Schio conservo un bel ricordo. Le sue strade, la sua gente cordiale e laboriosa, rappresentavano una dimostrazione di benessere e progresso economico e civile. Nella sua periferia sorgevano i famosi stabilimenti di lana, Rossi, che davano lavoro a tutta la città. Schio, era sotto il tiro dei cannoni austriaci, ed un brutto giorno, verso le cinque del mattino, incominciò il bombardamento della città, con cannoni di lunga gittata (305). Un grosso proiettile spezzò via mezza baracca, dove ero alloggiato; mi salvai per miracolo.
Dopo quello scampato pericolo, la vita ospedaliera continuò tranquilla. Nei primi giorni del novembre 1918, la dama della Croce Rossa, che si vantava di essere anche dama di corte e di avere molte aderenze ed amicizia anche in alto, mi confidò che entro pochi giorni si sarebbe conclusa la pace. A Villa Giusti, nelle vicinanze di Schio, già erano arrivati i plenipotenziari austriaci, per chiedere l’armistizio e la fine della guerra. Ero incredulo. Pensavo, che la guerra, sarebbe continuata ancora per molto. Il 4 novembre, come un lampo, si diffuse la lieta notizia.
Nella piazza principale, un maggiore, da un balcone, arringò la folla, che era costituita da militari di tutte le armi. La piazza era completamente gremita: Soldati! col vostro sacrificio, col sangue versato da tanti nostri commilitoni, iniziò l’oratore, abbiamo ottenuto la vittoria, contro il nostro secolare nemico. Grida di gioia, di applausi della folla, coronò queste ultime fatidiche parole. Ci abbracciammo l’un l’altro, senza neanche conoscerci. Qualcuno piangeva dalla gioia. Cominciò uno scampanio a festa di tutte le chiese di Schio, e specie della Cattedrale. L’armistizio era stata la conseguenza dell’avanzata incontrastata di Vittorio Veneto. Uno scampanio festoso, che rassomigliava ad una musica; seguirono colpi di cannone a salve. Cortei, luminarie, baldoria, canti guerreschi, si protrassero tutta la notte. La città sembrava impazzita dalla gioia. Lo spettacolo più travolgente, più commovente, si verificò dopo qualche giorni. Tutti i raggruppamenti di artiglieria, schierati sulle Dolomiti con i loro pezzi, scendevano rumorosamente a valle, con canti di gioia dei baldi artiglieri, seduti sugli affusti dei cannoni. Con la conclusione dell’armistizio, era terminata la guerra, con la sua sequela di stragi, morti, feriti, distruzioni di beni, di città e villaggi, e dopo qualche mese iniziò il congedo dei militari. Furono le classi più anziane appartenenti alla territoriale, che furono mandati a casa per prime.
Tali classi, durante la lunga guerra, ed in casi eccezionali, erano state anche mandate in prima linea, e si erano bat- tute da leoni.
Le classi più giovani, ebbero l’onore di occupare le città irredente, di Trento e Trieste. “
(Scipione Letizia “Un paese fuori legge”Napoletana 1977 )