E’ opinione diffusa che a Casal di Principe, da sempre, alberghi un retroterra criminale, violento, foriero di lutti e tragedie private e collettive. Ma qual e’ la realtà storica? Cosa avveniva nei primi anni del secolo?
Come già detto la maggioranza della popolazione viveva del proprio lavoro ed era gente onesta, semplice e austera, attaccata alla famiglia e ai principi religiosi.
Scipione Letizia sostiene, però, che “la popolazione era quasi tutta armata e molti possedevano anche il porto d’arme di fucile. Per recarsi in campagna, gli agricoltori, i piccoli possidenti, i coloni, vi si recavano col fucile ad armacollo” (Scipione Letizia op.cit. pag.64). La scusa era “per cacciare i volatili” ma, in verità, era per scoraggiare i male intenzionati. Infatti, anche allora c’era chi viveva di espedienti e le ruberie erano frequenti sia nei centri abitati che in campagna; l’abigeato (il furto di bestiame) era il crimine più diffuso e temuto dai lavoratori della terra per i quali una pariglia di buoi o qualche mucca rappresentavano, spesso, tutta la loro proprietà.
Poiché per mantenere l’ordine pubblico e contrastare i crimini in paese c’era una Caserma con un solo brigadiere e due Carabinieri, era stato creato un corpo di “guardie campestri” che, capeggiato da un comandante, aveva il compito di impedire i furti nelle campagne, soprattutto quelle di derrate alimentari. Queste guardie, munite di fucile e tromba (per dare l’allarme ) sembra fossero così ligie al dovere che spesso arrestavano e conducevano in Caserma anche dei poveri diavoli con un fascio di rape o di legna.
In questi casi solo il proprietario del terreno poteva intervenire e scagionare il ladruncolo che, in caso contrario, veniva inviato al carcere di Trentola.
Il possesso indiscriminato di armi, però, come spesso accade, rendeva facile il ricorso ad esse. Vigeva un codice comportamentale particolarmente rigido per il quale, ogni controversia, soprattutto se legata alla proprietà o alla difesa dell’onore, si risolveva a fucilate.
C’era miseria e sottosviluppo, c’erano retaggi di culture che si perdevano nella notte dei tempi secondo le quali farsi giustizia da soli era segno di forza e coraggio.
Spesso, nelle carte di polizia giudiziaria dell’epoca, vengono descritte risse e screzi, anche per motivi banali, da cui scaturivano feriti e morti .
Ad esempio, sappiamo che “a Casal di Principe, nell’aprile 1914, Sgalia Nicola di 20 anni uccise Davignone Pasquale, di anni 74 (entrambi di Casal di Principe) per questioni sorte per il gioco delle carte. Nella rissa Sgalia, disarmato della rivoltella che portava con sè (senza licenza!) dal Davignone, si recò a casa dello zio Caterino Francesco da dove tornò con il suo fucile e uccise il rivale, avendo solo fortunatamente evitato gli spari di quest’ultimo. I carabinieri dichiaravano che Sgalia aveva dovuto sfondare la porta di casa dello zio perché questi non era presente, segno che era molto determinato e che sapeva dove trovare il fucile.” (Gianni Criscione - La camorra in terra di lavoro: dalla repressione post-unitaria a quella degli anni Venti del XX° secolo – dottorato di ricerca in Storia della società europea – Università degli studi di Napoli “Federico II”- a.a. 2011/12 - pag. 175)
UNA PROVINCIA VIOLENTA
Ma questo accadeva solo nel nostro paese? Com’era la situazione nel territorio circostante?
Casal di Principe apparteneva alla provincia di TERRA DI LAVORO, la più popolosa della Regione Campania dopo quella di Napoli. L’estensione territoriale di Terra di Lavoro sopravanzava di molto l’attuale Provincia di Caserta. Comprendeva, infatti, parte dell’odierna Provincia di Napoli (il distretto di Pozzuoli, Giugliano, Qualiano e S. Antimo, che erano casali di Aversa; la costiera sorrentina da Vico Equense a Massalubrense; il distretto di Acerra e quello di Nola che includeva anche alcuni Comuni dell’attuale Provincia di Avellino), mentre a nord si spingeva fin quasi a Terracina, oggi in Provincia di Latina e comprendeva i distretti di Cassino, Equino e Sora, nell’attuale Provincia di Frosinone.
Questa provincia era considerata, non a torto, “una provincia violenta”.
Nel 1909 fu fatta un’inchiesta parlamentare sulle condizioni della zona (Inchiesta Bordiga) che individuava qui «una malavita prepotente, violenta, parassita e sfruttatrice di ogni produzione»
Un accurato studio “La repressione della camorra in terra di lavoro” effettuato dal dottor Gianni Criscione presso l’Università degli studi di Napoli Federico II ci permette di avere dati precisi sulla situazione della Provincia di Terra di lavoro nei primi decenni del Novecento.
Dall’analisi dei documenti e dei fascicoli del fondo di polizia giudiziaria della Questura sono stati inquadrati i reati commessi nella Provincia in un arco di tempo che va dal 1908 al 1921.
Se si escludono i furti nelle ferrovie, che per lo più rappresentano casi di smarrimento di oggetti, i reati contro la persona (omicidi e lesioni) sono circa 1.500, rispetto a quelli contro la proprietà (furti, incendi e danneggiamenti) che sono poco meno di 2.000.
La stragrande maggioranza di essi, considerando entrambe le tipologie di reato, si compiono nei circondari di Caserta (poco meno di 1000) mentre a Nola abbiamo circa 250 reati, a Gaeta poco meno di 250, 89 a Sora e 60 a Piedimonte d’Alife.
I reati contro la proprietà costituiscono circa la metà del totale nel circondario di Caserta, circa un centinaio nel nolano, metà a Piedimonte d’Alife, poco più di un centinaio a Gaeta e un terzo nel sorano.
Al 1 ottobre 1911 compaiono per la Provincia di Terra di Lavoro 923 persone da arrestare, numero tra i più alti d’Italia, anche se minore rispetto a quello relativo a Salerno e Napoli .
Ma si trattava di reati comuni o di “criminalità organizzata” di “onorata società” come in quegli anni veniva chiamata?
Negli innumerevoli reati in Provincia, sia contro la proprietà che contro le persone, molto spesso compaiono nelle carte delinquenti definiti “camorristi”, le cui attività però non si inquadrano nel modo di operare di una organizzazione camorrista, bensì in reati scaturiti da interessi del tutto personali o per lo spirito violento del soggetto, o ancora, per interessi familiari e/o professionali.
(Bordiga, Inchiesta parlamentare sulle condizioni cit., pp. 316-318, ripreso in Marmo, Tra le carceri e i mercati cit., p. 728 )
Nella zona dei Mazzoni, soprattutto, a farla da padrone erano i reati per gelosia di mestiere tra bufalai o tra mediatori e sensali, a volte identificati come camorristi, altre volte no, ma i cui reati erano per lo più legati all’attività di guardiania che i bufalai stessi svolgevano grazie al fatto di essere personalmente molto temuti nella zona. Era tanto diffusa questa tipologia di reato che gli stessi carabinieri li giudicavano come reati comuni, aggiungendo a volte tra le cause l’indole dei mazzonari.
La guardiania era alla base anche del reato di estorsione, commesso il più delle volte per la semplice funzione che si svolgeva e all’interno di logiche familiari difficili da distinguere da quelle criminali.
Ad un problema di “guardiania” è legato l’omicidio del guardiano Pezzella Antonio fu Tommaso, ad opera dei possidenti Corvino Francesco di Pasquale e De Angelis Francesco di Pasquale di Casal di Principe.
Dagli atti giudiziari emerge che, “nella colluttazione Pezzella aveva dato uno schiaffo a De Angelis chiamandolo “sfaccimma”, quindi fece atto di percuoterlo con un bastone che «asportava», ma che subito lasciò cadere per mettere mano alla rivoltella, che però si inceppò. I due, dopo aver sparato a vuoto due colpi, esplosero un terzo colpo, non si sa da parte di chi precisamente, a seguito del quale Pezzella morì. Tutti e tre non avevano la licenza di porto della rivoltella.”
ASSOCIAZIONI PER DELINQUERE
Lo studio sopra menzionato, analizzando i fasci del fondo di polizia giudiziaria della Questura intestati “Associazioni per delinquere”, per un arco temporale che va dal 1910 al 1921, presenta un quadro geografico della criminalità associata, che riguarda soprattutto i circondari di Caserta (l’aversano, ma anche la zona di Capua) e Nola, con rarissimi casi negli altri.
I casi descritti sono ben 68, ventidue nel circondario di Caserta, sei in quello di Nola e uno in quello di Gaeta. I reati contestati sono per lo più contro la proprietà (furti e danneggiamenti) con qualche caso di estorsione e imposizione della guardiania (S. Maria La Fossa, Mondragone, Pignataro, Trentola e Nola) o di richiesta di riscatto per la restituzione della merce (Casal di Principe, Pignataro Maggiore, il nolano). Non sono rari comunque i casi di reati contro la persona.
Unico il caso di Sessa Aurunca, in cui i presunti rei sono accusati di voler modificare l’esito elettorale.
A Casal di Principe viene scoperta, nel 1911, un’ associazione per delinquere che riguarda numerosi furti, ad opera di Ciervo Giuseppe, pastore, Cardiello Vincenzo Maria, Ricciardi Benedetto, Cantelli Francesco, Cerchiello Angelo; gli stessi agivano con una tecnica in uso anche a Napoli (e che ricorre tutt’oggi) come “il cavallo di ritorno”: tutti i derubati recuperavano la refurtiva «mercè compenso pecuniario ». A confermarlo erano stati gli stessi derubati, che però avevano precisato di non voler confermare ciò in caso di chiamata dal giudice, perché timorosi di vendetta da parte dei colpevoli. Siccome era notorio che a Casal di Principe i cinque svolgessero questa attività , consociati anche agli altri pregiudicati , Negro Giovanni […] e Cerullo Matteo […], fu loro contestato il reato di “associazione per delinquere”.
Altro caso è scoperto a San Cipriano nel 1912. (Gianni Criscione -op. cit.- pag. 167)
I luoghi più pericolosi e adatti per i furti erano le strade, su cui i commercianti con le loro carrozze e traini andavano e tornavano da Napoli. Sui numerosi furti, omicidi e altri reati avvenuti in questi luoghi, spicca la rapina, avvenuta nel marzo 1912, sullo stradale Napoli-Vico di Pantano( l’attuale Villa Literno) ad opera di cinque individui, i quali, secondo il delegato di p.s. , formerebbero una vera e propria associazione per delinquere. Dalla descrizione fatta durante la denuncia, il Capitano dei carabinieri di Casal di Principe ritenne che uno degli aggressori era il pericoloso pregiudicato Rosano Francesco, colono, mentre un altro era Di Sarno Alessandro, calzolaio, entrambi da S. Cipriano D’Aversa ed entrambi già vigilati e «più volte condannati per audaci furti». Il primo fu immediatamente arrestato, mentre il secondo, dopo un breve periodo di latitanza si costituì. Gli altri aggressori furono identificati in Mangiacapra Vincenzo e Capoluongo Luigi, che furono perciò arrestati e deferiti all’autorità giudiziaria.
Da successive indagini risultò che questi erano anche gli autori di molte altre rapine e che Di Sarno risultava essere il capo e promotore dell’associazione per delinquere, composta da Rosano Francesco, Mangiacapra Vincenzo, Capoluongo Luigi, Diana Giuseppe e Policastro Domenico.
La refurtiva dei vari colpi veniva portata a casa di Di Sarno. Lì, infatti, durante una perquisizione, fu trovata una quantità di oggetti vari, fra cui molti pacchi contenenti grano e fagioli, dei quali la moglie di Di Sarno non seppe giustificare la provenienza, nonché oggetti necessari per scassinare porte o serrature. Analoghe perquisizioni, con analogo esito, si fecero presso i domicili dei fedeli amici di Di Sarno, cioè Diana Giuseppe, Policastro Domenico, Cerullo Cipriano, Del Villano Antonio, Di Lanzo Nicola e Montefusco Salvatore, tutti contadini di S. Cipriano d’Aversa. Arrestati anch’essi, confessarono che quegli oggetti provenivano da furti effettuati sotto la direzione di Di Sarno.
I carabinieri aggiungevano che l’associazione di Di Sarno Alessandro era attiva non solo a S. Cipriano d’Aversa ma anche nei limitrofi Comuni del napoletano.
Associazioni a delinquere di analogo stampo vengono scoperte, in quegli anni, tra Mondragone, Grazzanise, San Felice a Cancello e Santa Maria la Fossa (1912), Villa Literno, Frignano Maggiore, Capua (1912) Santa Maria C.V. , Aversa,) Marcianise, Maddaloni (1913-quest’ultima molto connotata in senso “camorristico” : oltre a furti e ruberie varie, i soggetti incutevano timore, esigevano tangenti, non pagavano nelle osterie, ecc) Caserta (1915).
LA CAMORRA AMMINISTRATIVA
Il Comune più citato negli atti giudiziari di quegli anni per contese elettorali aspre, cattiva gestione dei beni pubblici e collusione dei notabili locali con la malavita è Aversa.
Famoso ed eclatante è il caso di Giuseppe Romano, “Peppuccio” definitito “l’onorevole camorrista” ,accusato persino in Parlamento, nel 1907, di contiguità con la camorra locale. La vicenda si protrarrà per molti anni e saranno inviate al Prefetto lunghe e dettagliate relazioni sull’operato del soggetto che descrivono favoritismi, clientele, cattiva gestione amministrativa, stretti legami con la malavita…
Le ispezioni porteranno allo scioglimento del Consiglio Comunale di Aversa e a nuove elezioni ma la scena politica della città, anche dopo l’uscita di scena dell’onorevole Romano, resterà molto “chiacchierata” per le collusioni con l’onorata società.
(PER APPROFONDIRE L’ARGOMENTO: GIANNI CRISCIONE “LA REPRESSIONE DELLA CAMORRA IN TERRA DI LAVORO” pag.158 -264 )