Agli inizi del Novecento i mestieri continuavano ad essere, in gran parte, quelli dei secoli precedenti e la maggior parte della popolazione (dato immutato fino agli anni Ottanta) praticava l’agricoltura.
Nei primi decenni del secolo questo settore ebbe un notevole incremento anche grazie alla bonifica di molte terre paludose, problema secolare accresciuto dallo straripamento del fiume Clanio che i Regi lagni (grandi canali costruiti nel 1500) avevano ridimensionato ma non risolto. Ferdinando II di Borbone, nella prima metà del 1800, aveva fatto opere di risanamento nel bacino inferiore del Volturno ma il problema persisteva.
La bonifica era auspicata sia per mettere a coltura altri terreni, sia per debellare la malaria, male endemico che mieteva ogni anno centinaia di vittime, provocata dalle zanzare che infestavano la zona.
Scipione Letizia racconta :
“Ebbe inizio la bonifica del suolo fin dal 1900 con le cosiddette colmate, le quali, col deposito del limo su tutta la zona, doveva sollevare di vari metri il terreno per renderlo coltivabile ed impedire il formarsi di stagni e laghetti. Tale metodo, perché lungo e dispendioso, nonostante che fossero state spese ingenti somme, per creare un canale dal Volturno a tutto il comprensorio, fino ad Ischitella, fu sostituito da un altro metodo, più sbrigativo, cioè con l’installazione di idrovore, che prosciugavano l’acqua notte e giorno e asciugavano i terreni che poterono essere utilizzati e messi a coltura”( pag.15)
L’opera di bonifica fu completata dal fascismo che fece di quest’azione una delle sue principali “battaglie” e opere di propaganda anche se la malaria non fu eliminata dalle nostre terre.
Ancora Letizia riporta (siamo negli anni “30) “In Casal di Principe ero Dirigente di un Ambulatorio antimalarico. Fra gli altri obblighi, vi era quello di eseguire non solo la cura dei malarici, ma soprattutto la profilassi, per evitare che le persone si riammalassero o avessero recidive. A tale scopo, oltre a distribuire in ambulatorio del chinino dello Stato, mi recavo, tre , quattro volte, nella stagione estiva, quando più fervevano i lavori, nelle campagne più infestate dalle zanzare. (…) Questa terribile malattia, era per gli abitanti del mio paese, un terribile flagello. Quasi un terzo della popolazione ne soffriva ogni anno. Incideva molto sull’economia del paese. I lavoratori colpiti, spesso, rimanevano disoccupati per vari mesi ed era la miseria più nera per le loro famiglie” (pag.165).
Come sostiene lo stesso autore, la profilassi e la bonifica erano insufficienti per sonfiggere le zanzare. Bisognò arrivare alla produzione del famoso DDT che liberò per sempre le nostre terre dal secolare morbo che l’affliggeva.
Nei primi decenni del Novecento le terre restavano, in maggioranza, in mano a grandi proprietari terrieri; c’erano poi i “medi” e i “piccoli” proprietari, gli affittuari e i braccianti a giornata.
Si registrava, come in altre parti d’Italia, in particolare del Sud, la piaga del lavoro minorile. Nei lavori agricoli venivano impiegati anche i bambini, fin dall’età di sette/otto anni. Il signor S.B. (1926) riferisce: ”Sono andato a scuola fino alla seconda elementare. Andavo sul Comune e l’insegnante era Agnese Coppola, abbastanza brava. Poi smisi di andare a scuola all’inizio della terza elementare, esattamente nel mese di novembre, poiché mio padre stette male e serviva l’aiuto in campagna”
Dopo la I guerra mondiale, sull’onda dei disordini e delle occupazioni delle fabbriche e delle terre che ci furono in tutta Italia, anche da noi i contadini si riunirono in una cooperativa denominata “Risveglio” che raggiunse il numero di oltre 500 iscritti. Essi occuparono i latifondi del marchese Diana e del dottor Bevilacqua in località Bonito e iniziarono a coltivarli con grande impegno ed energia, ricavandone un certo benessere.
I principali prodotti agricoli della nostra terra, in quegli anni e fino al secondo dopoguerra, erano costituiti da:
- grano
- uva asprina
- erba per animali
- canapa
- granturco
- avena
- fagioli
- pomodori
Si coltivavano anche altri prodotti ma in minori quantità.
In verità, la coltivazione di alcuni prodotti era problematica perché i mezzi di irrigazione difettavano o erano del tutto assenti per cui la siccità, spesso, distruggeva i raccolti.
Per quanto concerne le colture legnose, oltre alle viti, venivano coltivati (a coltura mista) meli (che producevano le famose mele annurche) e peschi.
Dalle interviste è emerso che, fino al secondo conflitto mondiale, alcuni tipi di frutta (albicocche, pere, susine, ecc.) non venivano qui coltivate ma acquistati da venditori ambulanti, in genere provenienti da Giugliano, che con le carrette giravano per il paese .
C’erano sicuramente alberi di questa frutta nelle campagne o nei cortili agricoli (una parte era sempre lasciata a orto/giardino dove c’erano spesso: noci, fichi, ciliegi, limoni, aranci, mandarini, gelsi, nespoli, ecc.) ma non costituivano coltivazioni su larga scala.
Dati catastali del Comune di Albanova (Casal di Principe, San Cipriano d’Aversa e Casapesenna) tra il 1923 e il 1929 evidenziano le principali colture del paese ponendo, al primo posto il grano e l’uva (le viti di uva asprina, maritate ai pioppi, venivano coltivate in coltura promiscua con grano o altri prodotti) seguiti da erba per animali, canapa, avena, granturco
(VEDI FOGLIO CON DATI CATASTALI ALLEGATO)
I lavori agricoli, effettuati con la forza delle braccia e attrezzi rudimentali: l’erpice ,’u prussiane (aratri) i sarrecchie (le falci) erano molto faticosi.
Il signor D.S. (1927) racconta: “ Ricordo che si usavano i buoi per arare i terreni, che furono utilizzati fino alla II guerra mondiale. Molti agricoltori facevano il conto terzo degli animali per arare . Dopo la guerra si iniziarono ad utilizzare i cavalli fino ad arrivare agli anni “60 quando si videro i primi mezzi meccanici come trattori e mietitrici” (FOTO CON I BUOI )
Alcuni lavori si svolgevano nei cortili, che erano molto ampi appunto per questo motivo.
Per esempio:
a. si falciava il grano in campagna, si legavano le fascine che, portate a casa , nei cortili, formavano i covoni; dopo l’essiccatura totale si trebbiava
b. anche i fagioli venivano estirpati quando erano giunti a maturazione e stesi nei cortili per l’essiccamento che durava vari giorni; poi si “battevano” con un attrezzo chiamato “ ‘u vevillo” per farli uscire dai gusci; in seguito, con una grande pala, “’u palone”, si buttavano dall’alto in basso, contro vento, affinchè la parte secca dei baccelli volasse via lasciando cadere solo i fagioli che venivano poi passati in una specie di setaccio a maglie larghe, “u crive”, per liberarli da pietruzze o ultime scorie.
C’era in paese, intorno agli anni “60, un signore che possedeva una sorta di “crivo gigante” e veniva spesso chiamato dai contadini per accelerare il lavoro; questo gli era valso il contranome di “ ‘u cernetore”.
Tra i mezzi di trasporto agricoli c’era ‘u traine, un carro tirato da uno o due buoi e ‘a carretta, tirata da due buoi.
Nei campi veniva poi usato “u streule”, una specie di slitta di legno che, attaccata ad un bue o ad un cavallo, serviva per il trasporto di balle di paglia o fieno, sacchi di grano, e altro.
Spesso per i bambini diventava un gioco divertente saltarci sopra e lasciarsi trasportare tra balle di fieno o sacchi.